Il crowd work contro la disoccupazione giovanile del Sud

Una delle principali cause della disoccupazione giovanile al Sud, che sfiora la quota del 60%, è l’assenza di imprese in conseguenza del processo di deindustrializzazione che ha interessato negli anni, martoriandolo, il territorio. Come qualche anno fa ha denunciato il rapporto della Fondazione La Malfa, soltanto il 6% delle circa 2.000 grandi imprese italiane ha sede nel Mezzogiorno. Secondo Bankitalia, non a caso, tra il 2007 e il 2014, la flessione del Pil al Sud è stata vicina al 15% con il risultato che l’economia delle regioni del Sud d’Italia è ferma a circa 85,2 punti mentre tutte le altre sono sopra i 90.

Se è vero questo, è anche vero che, da qui a qualche anno, questa situazione potrebbe mutare grazie alla rivoluzione tecnologica. Che è in grado di connettere a distanza lavoratori e imprese committenti, di “disintermediare” quindi gli spazi di lavoro e, conseguentemente, di creare occupazione nel Meridione anche in assenza delle tipiche strutture aziendali. Figlia di questa rivoluzione è una tipologia di lavoro come il crowd work grazie a cui l’impresa committente (c.d. crowdsourcer), con sede in una qualsiasi parte del mondo, ha la possibilità di richiedere lo svolgimento di un’attività di lavoro alla “folla” di persone (crowd), anche se operanti nella parte opposta, connesse alla piattaforma digitale che intermedia tra loro e l’impresa.

Il crowd work ha già raggiunto grosse dimensioni. Il rapporto della Banca Mondiale, intitolato The Global Opportunity in Online Outsourcing, stima un fatturato da esso derivante di 25 miliardi di dollari nel 2020. Le piattaforme digitali di crowdsourcing attive su scala globale sono 2.300. Tra queste, le più famose sono le americane Amazon Mechanical Turk (AMT), Top Coder e Upwork, l’australiana Freelancer.com, la tedesca Twago.

Nel 2015, AMT ha dichiarato 500.000 iscritti di 190 paesi diversi, Top Coder (con sede precisamente in Massachusetts) 753.911, Upwork 8 milioni da 180 nazioni, Freelancer 14,5 milioni con 7,5 milioni di progetti mentre Twago 263.715 iscritti con 66.683 progetti (come confermano, Pooler, 2014 e Strube 2015).

Tra i committenti più famosi si annoverano Google, Intel, Facebook, AOL, NSA, Telekom, Honda, Panasonic, Microsoft, NBC, Walt Disney e Unilever. E così, l’industrializzazione, come oggi la conosciamo, non è più condizione necessaria per creare occupazione sul territorio ma lo è la semplice connessione ad un dispositivo mobile e i giovani del Sud avranno la possibilità di ritornare occupati con uno di essi a disposizione.

Resterà lo sforzo di coniugare le opportunità della rivoluzione tecnologica con i rischi di arretramento sul piano delle tutele che ne derivano. Come ha messo in guardia Lukas Biewald, amministratore delegato della piattaforma CrowdFlower, “prima dell’avvento di internet, sarebbe stato particolarmente difficile trovare qualcuno disponibile a lavorare per te dieci minuti per essere poi subito licenziato. Ma grazie a queste tecnologie ora puoi effettivamente trovare qualcuno, corrispondergli un compenso irrisorio per poi sbarazzartene non appena non ne hai più bisogno”.

In Italia, il passo giusto è nella direzione di uno Statuto comune di diritti, applicabile cioè ai lavoratori in quanto tali, siano essi subordinati, autonomi o parasubordinati posto che, sino ad oggi, ad ogni precisa categoria di appartenenza sono corrisposti alcuni precisi diritti. Alcune imprese, soprattutto piccole, già affrontano questa sfida con un articolato sistema di diritti interni creato su misura. È il caso, ad esempio, della Net in Progress che capita di leggere su uno dei blog dedicati ai giovani innovatori.

In fondo, si tratta di governare la rivoluzione tecnologica nella consapevolezza che essa non è in assoluto costruttiva o “disruptive” ma può essere l’una o l’altra a seconda delle condizioni “ambientali” in cui trova sviluppo.

Pubblicato:

http://www.huffingtonpost.it/ciro-cafiero/il-crowd-work-contro-la-disoccupazione-giovanile-del-sud_b_15473492.html