Interazioni pericolose

L’uomo per competere con la macchina rischia di diventarlo a sua volta. L’incunearsi di componenti artificiali elettronici e informatici trasforma l’organismo in un sistema integrato, al punto di superare la distinzione classica tra umano e meccanico, tra naturale e artificiale. Siamo davanti all’uomo cyborg. È urgente creare organismi e istituzioni che garantiscano la governance dell’innovazione tecnologica, limitando le forme disumanizzanti del postumanesimo.

Il dibattito sul lavoro del futuro ha subìto un’accelerazione dal 28 gennaio scorso, quando il Consiglio dei ministri ha licenziato un disegno di legge sul lavoro agile che rende possibile l’utilizzo delle moderne tecnologie per lavorare anche in un luogo diverso da quello di lavoro. Qui ci limiteremo a rispondere a tre domande. La prima riguarda i cambiamenti che l’innovazione tecnologica porterà al lavoro; la seconda verte sui condizionamenti che tale innovazione esercita
sulla possibilità di concepire l’uomo come un essere modificabile, dove la tecnica pesa di più della natura; la terza riguarda il modo in cui gestire l’innovazione tecnologica per raccoglierne i frutti e scongiurare il rischio che essa prenda il sopravvento sull’uomo. Il lavoro sta cambiando a causa di dieci tecnologie
sintetizzate nel report del governo inglese, The future of work: jobs and skill in 2030 e in quello del McKinsey global institute. Internet mobile, automazione dei lavori, Internet delle cose, tecnologia cloud, robotica avanzata, genomica di nuova generazione, mezzi di trasposto, tecnologie per l’immagazzinamento dell’energia, stampa 3D, nanomateriali. Questo cambiamento va analizzato secondo tre aspetti distinti. Il primo è quella dello smart working, che può tradursi in uno slogan: “Lavora dove vuoi, quando vuoi e come vuoi”. Grazie infatti alla possibilità di essere sempre connessi con il lavoro per mezzo di device mobili, il luogo di lavoro si svuoterà di senso perché sarà sostituito da spazi virtuali; così come l’orario di lavoro – perché ciascun lavoratore gestirà il proprio tempo – oppure il  potere direttivo del datore, perché ciascun lavoratore dirigerà se stesso in una logica finalizzata al risultato. Richard Branson, patron della Virgin, ha fatto entrare in azienda lo smart working. Lo stanno timidamente seguendo anche aziende come Barilla, Lilly e Sanofi Aventis che hanno aperto le porte al lavoro agile.
Il secondo aspetto è quello dell’enhancement, una tecnica sperimentata negli Usa che modifica i ritmi del cervello per rendere l’uomo simile a un robot, infaticabile e con una memoria a lungo termine per aumentare la produttività. Il terzo prevede di sostituire l’uomo che svolge lavori manuali con una macchina. La cinese Shenzen ewerwin precision technology company, per esempio, ha già annunciato l’intera robotizzazione di uno stabilimento e il licenziamento di 1.600 lavoratori su un totale di 1.800. Per rispondere alla seconda delle domande poste precedentemente, in merito ai condizionamenti della tecnica, possiamo affermare in breve che l’uomo per competere con la macchina rischia di diventarlo a sua volta. L’incunearsi di componenti artificiali elettronici e informatici
– come la connessione a device mobili, o come le forme di enhancement – trasforma l’organismo in un sistema integrato, al punto da superare la distinzione classica tra umano e meccanico, tra naturale e artificiale. Siamo davanti all’uomo cyborg che, secondo il National science foundation (Nsf) – organismo governativo degli Usa – denota un sistema complesso composto da parti biologiche e dispositivi nanotecnologici. A imporsi è l’antropologia del postumanesimo, una corrente filosofica inaugurata da Neil Badington nel 1982, secondo cui la tecnologia, più che la scienza, ha distrutto l’idea di una natura immutabile dell’uomo per rendere l’uomo un essere capace di essere modificato. Così la corporeità è concepita come in un substrato biologico, un accidens della storia, più  che un’inevitabilità del darsi della vita. Anche l’imperativo morale, secondo questa corrente di pensiero che si è già imposta nella cultura occidentale, diviene:  “Devi farti carico della tua costituzione biologica modificandola a tuo piacimento”. Muta il concetto di vita. È viva l’entità che contiene e codifica informazioni, mentre il valore della vita è dato dalle informazioni che ogni entità processa. Considerare l’informazione superiore rispetto alla materialità porta a cancellare lalinea di separazione tra naturale e artificiale. La vita, ridotta a conservare e a elaborare informazioni, rischia di non essere distinta dagli apparati tecnologici che  accolgono, elaborano e trasmettono tali informazioni. In questo nuovo scenario, per rispondere alla domanda finale su come gestire questi processi, è  importante individuare la strada che, da un lato, porta a godere dei benefici dell’innovazione tecnologica e, dall’altro, a superare la visione postumana dell’uomo. È utile chiedersi non tanto how much is too much? (quanto è troppo?), ma why? (perché?). La domanda originante deve essere quella di senso. Cosa sarà  dell’uomo e del suo destino? Il perché delle tecnologie orienta il progresso stesso e definisce quello che la Chiesa chiama sviluppo umano. È dunque urgente  creare organismi e istituzioni che garantiscano la governance dell’innovazionetecnologica. Luoghi istituzionali che possano dare vita a forme di dialogo etico e  ntropologico per regolare umanamente  le tecnologie verso una ricerca oggettiva del bene, incluso quello dei deboli e dei poveri. La governance della tecnica-tecnologia  diventerebbe l’argine con cui garantire l’innovazioneper limitare le forme disumanizzanti del postumanesimo. La comunità internazionale è chiamata   un discernimento interdisciplinare, perché in gioco c’è il destino sul significato di ciò che è veramente umano, al di là delle logiche del mercato che tendono a economizzare tutto. Ma la fiducia, la comprensione, la solidarietà, la giustizia, l’uguaglianza e anche l’amore sono beni e valori fuori dal mercato, non  sono monetizzabili, ma fondano la condizione per vivere insieme.

pubblicato su Formiche n. 113 aprile 2016