Il sindacato? Oggi è chiamato a convertirsi da realtà di “rappresentanza” a realtà di “servizi”

La rivoluzione tecnologica interroga il sindacato con due domande.

La prima è come conciliare innovazione tecnologica e forza lavoro nella fabbrica 4.0.

La seconda è cosa fare rispetto ai tantissimi lavoratori della gig economy, c.d. gig workers, ovvero quelli che non sono mai entrati né nello spazio fisico della fabbrica né nei meccanismi che la regolano, come orario di lavoro, potere direttivo, gerarchia piramidale, perché lavorano connessi da remoto ad un dispositivo mobile.

Volendo rispondere, la prima domanda deve sollecitare il sindacato a due cambi di strategia.

In primo luogo, il sindacato è chiamato a promuovere la formazione dell’attuale forza lavoro per renderla compatibile con l’innovazione e, di conseguenza, rendere possibile un’interazione virtuosa tra uomo e macchina.

Questo vuol dire soprattutto promuovere la conversione delle competenze di questi lavoratori da “hard skills”, legate alla fabbrica fordista, a “soft skills” necessarie per la fabbrica innovativa, al pari dell’ abilità logico-matematica, del pensiero computazionale, della capacità di lavoratore in team. Vuol dire, in altri termini, creare le condizioni per quella che l’economista Weitzman definisce “crescita ricombinante”.

E così, ad esempio, non sarà affatto scontata la scelta di licenziare il lavoratore rispetto a quella di disattivare la macchina quando alle aziende si imporranno operazioni di riduzione dei costi o di conseguimento di maggior profitto.

In secondo luogo, il sindacato è chiamato a rimodulare gli attuali contratti collettivi.

Essi, infatti, sono difficilmente compatibili con il fenomeno della c.d. industry convergence per cui una stessa azienda svolge attività in settori diversi, prevedono figure professionali difficilmente compatibili con le specificità introdotte in azienda dall’innovazione ma anche una retribuzione composta da pochi elementi variabili, utili a misurare la produttività dell’uomo nell’interazione con la macchina.

La seconda delle domande impone invece al sindacato una riflessione sulla propria identità.

Se è vero che il sindacato ha sino ad oggi esercitato la funzione di rappresentanza dei lavoratori all’interno del perimetro della fabbrica, è vera allora – come afferma padre Occhetta nel suo ultimo libro (Il lavoro promesso, Ancora) – la difficile compatibilità tra questa funzione e i lavoratori che, come quelli della gig economy, in fabbrica non metteranno mai piede.

E così, il sindacato è chiamato a convertirsi da sindacato di “rappresentanza” a sindacato di “servizi”, per offrire ai gig workers, la garanzia di alcune tutele che, in quanto legate al lavoro in fabbrica, non avrebbero altrimenti mai avuto.

Ad esempio, tutele basilari in materia di minimi retributivi, sicurezza sul lavoro, ferie, maternità o, per meglio dire, le tutele di cui il lavoratori di Foodora o Deliveroo oggi non godono.

Si tratta del modello del sindacato cooperativo, c.d. “umbrella companies”, alla stregua del sindacato “Smart” in Belgio, che ha offerto ai proprio aderenti “pacchetti di tutele”.

In questa prospettiva, il sindacato è anche chiamato a digitalizzarsi per operare in rete, lo spazio che i gig workers abitano, e a rimodulare il suo linguaggio per parlare al popolo dei gig workers, fatto di ingegneri, tecnici e laureati nelle discipline scientifiche con un grado di specializzazione diverso da quello dei lavoratori del trentennio passato.

In definitiva, se si farà trovare pronto di fronte alla due domande della rivoluzione tecnologica, il sindacato potrà fare di essa una straordinaria occasione di revenge contro chi da tempo vede in questa rivoluzione la causa della sua rovina.

Del resto, era proprio Gino Giugni a riconoscere l’attitudine del sindacato a interpretare con lucidità i mutamenti della realtà «in rapporto al graduale mutamento delle condizioni tecnico economiche della produzione».

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