Reddito minimo garantito e sicurezza sociale: a che punto siamo?

 

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Quando parliamo di reddito minimo garantito intendiamo quella forma di reddito minimo devoluto solo a chi è in età lavorativa e con un ammontare che varia in funzione dell’età stessa, con la clausola che il reddito di cui si disponga sia inferiore ad una determinata soglia ritenuta di povertà. E’ un supporto che in Europa si è diffuso soprattutto nei paesi del Nord, esiste in America. L’Europa in generale è sempre stata molto sensibile al tema della sicurezza sociale in cui si iscrive appunto il reddito minimo garantito: una delle clausole del trattato di Nizza, l’art. 29., guarda al principio di protezione universalistica in favore del cittadino laborioso bisognoso che si trova in situazioni di non reddito.
A questa clausola fa eco lo stesso trattato sul funzionamento dell’Ue che impedisce qualsiasi regressione di tutela sotto il profilo della sicurezza sociale, quindi con particolare riferimento al reddito minimo garantito. In questi anni, a detta di molti economisti, nonostante questa spiccata sensibilità verso la sicurezza sociale, l’Europa non ha prodotto i risultati sperati.
Alcuni economisti, uniti sotto la denominazione di “Helicopter Money”, criticano il fatto che l’Europa abbia mostrato molto più attenzione agli stanziamenti di fondi a favore delle banche, gli intermediari finanziari, che a loro volta avrebbero dovuto reinvestire quei fondi in favore della collettività per aumentare il benessere comune, cioè la spesa, piuttosto che nei confronti del singolo cittadino. Così, ad esempio, la BCE, da un lato, attraverso il Quantitative Easing, compra titoli di stato detenuti dalle banche e immette nelle loro casse liquidità, dall’altro, le incentiva a mettere quella liquidità sul mercato rendendone sconveniente l’immobilizzazione.
La proposta dell’“Helicopter Money”, è quella di spostare tali risorse verso progetti di finanziamento della sicurezza sociale, a partire dal finanziamento del reddito minimo garantito europeo. Ambizione condivisa anche dal movimento “Nuit Debut” francese, esploso in contrasto alla riforma del lavoro nel 2016 da poco approvata.
Purtroppo il tema della sicurezza sociale in questi anni in Europa, si è scontrato con le cosiddette misure di austerity che l’Europa ha dovuto adottare: sono insindacabili sia a livello sovranazionale che nazionale e come tali sfuggono al bilanciamento dei principi contenuti nella Carta di Nizza, ivi compresi quelli in materia di sicurezza sociale. In tale contesto, vi è peraltro un rischio di arretramento delle politiche di sicurezza sociale, Si tenga a mente che la sentenza Pringle del 27 novembre 2012, C-370/12 ha ricordato che il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) è un Trattato internazionale e come tale “immune” dai principi della Carta di Nizza.

Il reddito minimo garantito in Italia

Anche in Italia sono state numerose le proposte di introduzione del reddito minimo garantito, soprattutto negli ultimi tempi, posto che molti economisti hanno ravvisato la necessità di introdurlo in conseguenza della rivoluzione tecnologica che, a loro dire, avrebbe lasciato molte persone prive di occupazione. In realtà si tratta di una suggestione già nota al nostro Paese nel 1989 come illustrava il famoso Paolo Volponi nel libro “Le mosche del capitale” dedicato ad Olivetti.
L’Italia ha accolto con ritardo i principi in materia di legislazione sociale (rispetto alla Germania stessa che già nel 1883, grazie a Bismarck aveva demandato allo Stato la gestione dell’assicurazione sociale) e riconosce al cittadino per periodi limitati e a fronte di determinate condizioni, il diritto del cittadino ad un supporto reddituale, come ad esempio l’indennità di disoccupazione.
Il sistema di assicurazione sociale nasce in Italia nel segno delle società di mutuo soccorso (disciplinate poi con legge n. 3818 del 1886) ovvero associazioni volontarie di lavoratori, che provvedevano a ripartire all’interno della collettività degli associati i rischi comuni (malattia, infortunio, inabilità, ma anche disoccupazione, morte, incremento del carico familiare, ecc.) in una logica di solidarietà redistributiva di stampo economico: limitata al gruppo degli individui che responsabilmente vi contribuivano economicamente. Non era concepita dunque alcuna forma di intervento statale e quindi di finanziamento a carico della finanza pubblica.

Cosa dovrebbe fare il legislatore?

Il legislatore, secondo l’Avv. Giuslavorista e Collaboratore della Cattedra di diritto del lavoro presso la Luiss Guido Carli, Ciro Cafiero, dovrebbe muoversi nel nostro Paese in due direzioni diverse:

-La prima è quella di potenziare gli strumenti di workfare, cioè di quei percorsi che danno diritto all’erogazione di un sussidio a fronte di un servizio svolto per la collettività, sulla scorta del modello dei lavoratori socialmente utili, o, in assenza, della partecipazione a seri corsi di formazione professionale.
In tal senso, non bisogna restare legati all’idea di servizio standard ma aprirsi alle opportunità che offre il nuovo mercato di servizi, in piena espansione anche grazie alla rivoluzione tecnologica. E ciò a partire dal servizio di trasporto di persone e cose su commissione di una piattaforma on-line.
-La seconda è quella di rendere effettivo il sistema della c.d. condizionalità nell’ambito del rapporto di disoccupazione, in base a cui il lavoratore disoccupato percettore di un sussidio ha diritto ad esso sino a quando non gli viene offerto un lavoro “ragionevole” ovvero che, in base alle sue competenze, può svolgere.